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Metodi di ricerca circa un’incalcolabile alterità, Una riflessione epistemologica

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neve1983
view post Posted on 7/2/2008, 12:55




La ricerca in genere, non solo quella antropologica, nasce in seno e a partire da fondamentali direttive che comunemente costituiscono la struttura di ciò che intendiamo mettere in luce. Il lavoro risultante non è quasi mai trasparente, né è possibile pretenderne l’assoluta perfezione. È pur vero che a volte si può far ricerca anche senza volerlo, si mira ad un preciso obiettivo che per vie traverse sfocia in altrettante interessanti considerazioni. Si approfondiscono pensieri, appunti volanti, esperienze vissute e riflessioni ritrovate. Il ricercatore quando osserva è influenzato dai suoi valori, dai suoi parametri, dai suoi punti di vista, anche dalle sue emozioni. Sebbene la ricerca sia una pratica scientifica non risulta essere esente da influenze “emozionali” ma a volte proprio quest’ultime riescono a dare una svolta decisiva all’analisi. Soprattutto il momento della trascrizione muta da esperienza oggettiva e sensibile a soggettiva e individuale poichè scrittura sarà inevitabilmente intrisa dello stile personale. Il problema è rilevante soprattutto nella cultura orale: l’antropologo, posto in una posizione “neutrale” e avendo a disposizione un etnofonte, ha il meticoloso compito di trarre le possibili e il maggior numero di informazioni; anche questo è a rischio di “feticizzazioni” malgrado l’autore cerchi in tutti modi di eseguire un lavoro imparziale, senza abusi interpretativi o possibili reinvenzioni del tutto personali, che alla lunga, non fanno altro che astrarre dal contesto la fonte e puntualmente falsarlo. Questo accade anche per l’etnofotografo dove, fissata l’immagine, l’obiettivo risulta un filtro che sbiadisce l’oggetività andando incontro ad un’infinità di tagli che risponderanno sempre alle esigenze, all’attenzione particolareggiata, al gusto personale e al preciso soggetto cui l’etnofotografo vorrà mettere in evidenza.
Tutto ciò che viene rappresentato, con la scrittura, con la fotografia, con l’arte eccetera, altro non è che un prodotto permeato da un codice che cambia in base al contesto. Per questo non riusciremo mai ad avere una copia “identica” della realtà rappresentata perché è già diventata “altra”.
Nel passo tratto da “Il corpo è fatto di sillabe” di Elsa Guggino tutto ciò è messo in evidenza attraverso l’esperienza personale dell’antropologa. Il suo sentirsi “sotto accusa” come antropologa deriva da un suo esplicitato malessere, da una sorta di stanchezza intellettuale che non annichilisce i suoi “pensieri palpitanti” e il “rigoroso sentimento” verso la materia. La cultura che l’aveva nutrita adesso sembra ripercuotersi contro se stessa; si chiede se sia veramente riuscita a far dire ciò che intendeva scoprire, se corrisponda alla verità effettiva, se non sia stato una continua verifica di cose già conosciute, di intuizioni verificate sul campo, deduzioni scontate che colmavano vuoti concettuali. La risposta è in quello che lei chiama “infimo oggetto della mia osservazione”: l’oggetto è ben lungi dall’essere privo di contaminazioni contestuali, esso è e non è a seconda di come si pone, o di come lo poniamo, diverso da ciò che è o da quel che appare in relazione a come lo osserviamo o come ce lo mostrano e la distanza tra verità e menzogna diventa molto sottile. Non esiste un ordine meccanico, un modo giusto per classificare, ma esistono oggetti relazionali che fungono da tessere di un mosaico di infinite possibilità. La scelta di procedere liberamente in una rappresentazione se da un lato può far correre il rischio di falsare l’oggetto, da un altro ne può restituire valori perduti, reinnestare processi conoscitivi e comunicativi, formare parole nuove per nuovi soggetti.
È necessario appropriarsi di un codice, che non è necessariamente verbale ma che, nella maggior parte dei casi, viene messo in secondo piano lasciando spazio a codici non-verbali molto più complessi ed elaborati. L’ordine può anche non affermarsi come convenzione, ma un codice ascende ad un livello che viene percepito e poi formalizzato come comune a più di un popolo, quindi diffuso, identificato.
Esiste una ricerca che, prima di essere antropologica, scientifica e quant’altro, è osservazione di “alterità incalcolabilmente diverse”. Se in un primo momento l’accostamento alterità/diverse può suscitare un po’ di smarrimento, esso si placa se immaginiamo gli specchi che ogni giorno abbiamo dinanzi le nostre realtà, e il plurale non è utilizzato a caso. La realtà appare unica ma se non fosse molteplice, varia e contraddittoria non la si potrebbe riconoscere, distinguere, cogliere. Parafrasando J. W. Goethe : “ Se non esistesse il dolore come potremmo provare piacere? Se non esistesse la fatica come potremmo godere del riposo? Se non esistesse la morte come potremmo apprezzare la vita?”
 
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